Rischioso, ma la domanda è: in quale misura?

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Edizione 29.07.2020 – Il parere dell'economista capo di Raiffeisen

Martin Neff – Economista capo di Raiffeisen
Martin Neff – Economista capo di Raiffeisen

Ovviamente al ritorno dalle vacanze c'è sempre molto da raccontare. Quantomeno noi che quest'anno trascorriamo le vacanze estive nel nostro Paese vivendo molteplici esperienze. Ma non voglio addentrarmi troppo in questo argomento, bensì soltanto prenderlo quale spunto per le mie riflessioni odierne e per tematizzare alcune osservazioni.

Tra l'altro abbiamo pure fatto una gita sullo Jungfraujoch, per la prima volta in vita mia - devo ammetterlo - anche se poi al mio rientro ho scoperto che non sono affatto l'unico svizzero che quest'anno si è recato per la prima volta sul cosiddetto «Top of Europe». In fin dei conti ora non dobbiamo più temere come gli anni scorsi di dover fare a lungo la fila e magari di non riuscire nemmeno a veder bene alcun ghiacciaio a causa del pullulare di turisti esteri. Il coronavirus ha dunque anche effetti positivi, a prescindere dalla situazione disastrosa che la bassa affluenza causa a numerosi gestori di ferrovie, ristoratori e negozi. In altri hotspot turistici svizzeri si delinea, o si è delineato, un quadro simile. Certo, la gioia dell'uno equivale al dispiacere dell'altro, e questo vale pressoché a livello globale. La gioia vige ad esempio tra la popolazione svizzera, la quale per una volta ha a propria disposizione esclusiva i tesori tanto presi d'assalto dai turisti e che dunque può andare in giro liberamente a Lucerna o Ginevra, come non era più possibile fare ormai da decenni. Lo stesso dicasi per gli abitanti di Barcellona o Venezia, che tanto per cambiare possono tirare il fiato e parlare a giusto titolo della «loro» città.

Non si parla più di «overtourism», ossia il sovraffollamento turistico, e di «stress della densità», entrambe parole molto in voga nella nostra epoca, quantomeno fino a prima del corona. Chi oggi prende l'aereo per Barcellona - cosa di nuovo sconsigliata a fronte del numero di casi in crescita - vive probabilmente questa città in una luce mai vista prima. Pertanto, assumere un certo rischio diventa quasi di nuovo allettante. Chi invece ha visto le recenti immagini del Lago di Cauma a Flims o della Valle Verzasca si chiede certamente che cosa ci faccia tutta quella gente lì accalcata nello stesso posto, e spesso soltanto per postare qualche foto che dimostri di esserci stati. Sono perlopiù i più giovani che vivono seguendo il motto «no risk no fun». Ma di quale rischio stiamo parlando nello specifico? Oggi è davvero più rischioso prendere un aereo per Barcellona rispetto a due, tre o quattro settimane fa? Barcellona è – semmai – più pericolosa di Venezia o della fila di attesa al Lago di Cauma? Oppure è tutto solo una bella frottola, come ha cercato di spiegarmi un'ostessa palesemente scocciata di una baita di montagna nell'Oberland bernese. Quando ho cercato di pagare con la carta di credito anziché con i contanti, mi ha infatti risposto che da loro il coronavirus è assolutamente fuori discussione, e che dunque avrei dovuto cortesemente pagare in contanti, dato che altrimenti gli altri ospiti avrebbero dovuto aspettare troppo a lungo nella sua baita totalmente strapiena (!) di avventori. Avrei replicato molto volentieri a questa signora, ma cosa avrei potuto dire? Cosa avrebbe potuto eventualmente farla ricredere? I fatti! Non mi restava altro che il riferimento al Consiglio federale e alle sue raccomandazioni, che però vengono gettate al vento fintanto che sono soltanto ordini e non diventano divieti. A quel punto mi è parso chiaro che ci occorrono urgentemente dati.

 

Debole base decisionale

Purtroppo è proprio questo che manca ora nella più grande crisi per il mondo e l'economia dalla Seconda Guerra Mondiale. Disponiamo di troppo pochi fatti, sulla cui base poter formulare criteri chiari e coerenti su quando introdurre, inasprire, allentare o di nuovo sopprimere quale misura di prevenzione. Altrimenti come possiamo passare dai due metri di distanza minima da mantenere al metro e cinquanta, dal definire le mascherine un po' utili e un po' superflue oppure dallo stabilire i Paesi a rischio rispettivamente cancellare determinati Paesi dall'omonima lista? Queste belle trovate minano la credibilità degli esecutivi causando così nella popolazione una sorta di logoramento, che lascia presto il posto all'indifferenza o al fatalismo, rendendo infine le raccomandazioni e gli ordini solo delle parole gettate al vento. Ed è proprio così che si sente probabilmente la citata signora dell'Oberland bernese, il cui disagio era chiaramente palpabile e la cui fiducia nell'Ufficio federale della sanità è pressoché pari a zero - secondo le sue stesse affermazioni. E ciò non stupisce assolutamente considerata la base di fatti alquanto ridotta.

 

Attivismo su basi vaghe

Se è vero anche solo lontanamente che il COVID-19 ci occuperà ancora per molto tempo, allora sarebbe (ormai) ora di disporre di fatti concreti. Ma l'ironia a monte è che alla base di dati carenti hanno fatto presto seguito non parole bensì fatti come il lockdown, la quarantena, i programmi bilionari per l'economia. Di solito è invece l'esatto contrario in numerosi ambiti dell'ambiente, della società o dell'economia. In realtà sono giustificati da innumerevoli fatti, ma danno il via soltanto a parole e raramente ad azioni. Dopo mezz'anno dallo scoppio della pandemia vengono snocciolati – anche sui media di Stato – soltanto numeri, che se considerati in maniera isolata sono del tutto privi di pertinenza e forza espressiva. Ad esempio il numero di casi o di morti. Anche ieri la NZZ parlava di nuovo del numero di persone decedute finora o dei casi confermati dal laboratorio nel suo articolo intitolato «65 neue Infizierte» (ossia 65 nuovi infetti). Perlomeno i dati sono stati posti in relazione alla popolazione, anche se una valutazione è stata assolutamente tralasciata. Significa allora che la situazione attuale è grave oppure più grave di prima oppure non più così grave? In questa stagione miseramente povera in termini mediali basta un aumento a far notizia, sebbene il numero di casi in sé sia estremamente basso rispetto a marzo. Anche gli attuali vaneggiamenti sulla seconda ondata sono altresì fuorvianti e a livello statistico del tutto incomprensibili considerata la mancanza di indicatori significativi. Ma ciò che manca è soprattutto una base di dati in certa misura comparabile a livello internazionale. Ciononostante vengono allestite liste di Paesi che alcuni classificano come rischiosi e altri invece no. Pertanto non stupisce affatto che alcuni si chiedano di chi si possono fidare e se si devono ancora fidare. Se l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha fallito in qualcosa è perlopiù nella creazione di trasparenza. Certo è già lodevole ponderare i numeri di casi e di morti almeno in base alla popolazione, ma anche questo è troppo poco. Che cosa sappiamo della grande massa? La risposta è: quasi nulla.

 

Occorrono più test!

Il COVID-19 è di sicuro pericoloso, ma possiamo scoprire in quale misura lo sia effettivamente soltanto se gettiamo luce sui dati sommersi. Non sappiamo quale percentuale della popolazione è o è stata infetta. Di conseguenza non conosciamo nemmeno il numero di infetti asintomatici (ossia privi di qualsiasi genere di sintomo). Questi però sono i dati necessari come minimo per poter quantificare il rischio rappresentato dal COVID-19 nonché probabilmente anche il motivo per cui la mia categoria professionale degli economisti si è molto prodigata a richiedere a gran voce di eseguire più test. Non c'è da stupirsi, dato che praticamente nessun altro settore dipende in tale misura dall'affidabilità dei dati per esercitare il proprio lavoro come la corporazione degli economisti. Nel caso del COVID-19 va detto anche che la corporazione dei virologi e l'intero settore sanitario brancolano quasi nel buio. Nessuna base per interventi con implicazioni gravi nella vita quotidiana e nell'economia. Una struttura di dati rappresentativa deve essere basata su un rilevamento completo, che interroghi la popolazione in generale, proprio come si faceva prima per i censimenti. Pertanto, dovremmo innanzitutto procurarci i fatti e non aspettare di nuovo - come di consueto - per vedere prima che cosa fanno gli altri (Paesi). Temo però che la raccomandazione di fare il test possa rivelarsi utile in equal misura della raccomandazione di usare la mascherina. Un obbligo di sottoporsi al test sarebbe invece diverso, ma mi sembra già di sentirli i confederati che amano tanto la libertà e l'autoresponsabilità: sarebbero di sicuro contrari. Infatti, per loro è già inaccettabile l'obbligo della mascherina o che possano essere oggetto di un controllo al rientro da un «Paese a rischio». Farsi dettare legge da altri contraddice la marcata ostinazione. O lo si fa di propria iniziativa oppure niente. Ma quanto rischioso è questo atteggiamento? Siamo onesti: non lo sappiamo affatto.