Il dilemma di Xi

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Edizione 11.12.2019 – Il parere dell'economista capo di Raiffeisen

Martin Neff – Economista capo di Raiffeisen
Martin Neff – Economista capo di Raiffeisen

Un po' più di due anni fa in occasione del 19esimo Congresso nazionale del Partito Comunista Cinese (PCC) a fine ottobre 2017 è iniziata – per così dire – l'era di Xi. Allora i 2'300 delegati del Congresso nazionale hanno eletto Xi Jinping quale sovrano onnipotente del Regno di Mezzo. Il PCC lo ha persino inserito quale pensatore politico nella Costituzione del partito. Finora solo due altri Presidenti del PCC erano riusciti in questo intento, ossia Mao Zedong e Deng Xiaoping. Anche se in vita questo onore è stato riservato fino adesso esclusivamente a Mao Zedong in parte e per l'appunto a Xi Jinping.

In realtà, in precedenza Xi non si era necessariamente fatto un nome quale pensatore politico pionieristico, ma è riuscito a ripulire il partito e a mettere un limite alla corruzione dilagante. Al contempo, però, ha altresì limitato la libertà di opinione e ha preso – nonché prende tuttora – provvedimenti rigorosi contro i dissidenti politici. Il suo slogan del sogno cinese, ovvero l'obiettivo di riportare la Cina al vertice delle Nazioni, domina il suo programma politico e il Partito confida pienamente nelle sue capacità di poter promuovere effettivamente la Cina sotto i riflettori del palco mondiale. E a questo scopo sembra che per Xi Jinping ogni mezzo sia lecito.

 

Sempre più venti contrari

Al momento Xi è tuttavia esposto a svariati venti contrari. Il contenzioso commerciale con gli USA si ripercuote sull'economia cinese, che ormai da tempo non cresce più a un ritmo a due cifre, anche se registra ancora un buon risultato con il 6 % annuo. Tuttavia, questa percentuale diminuisce ogni anno un po' di più e presto ci sarà un cinque prima della virgola. Forse già nell'anno a venire, a seconda del fatto se il 15 dicembre il Presidente degli Stati Uniti amplierà effettivamente in misura considerevole i dazi sulla merce cinese, come ha già preannunciato. La crescita inferiore della performance economica cinese non è di per sé così grave, considerato che anche la Cina ha conseguito progressi in termini di benessere ed è confrontata alle prime tendenze di saturazione dovute tra l'altro all'evoluzione demografica. Al contempo, degenera anche l'indebitamento, il quale sale a un ritmo più rapido rispetto al benessere. Le imprese, le economie domestiche, lo Stato e il settore finanziario unitamente rappresentano una quota di indebitamento pari a quasi il 300 % del prodotto interno lordo (PIL). Dalla crisi finanziaria la quota di indebitamento è formalmente uscita da ogni controllo. Pertanto per quanto riguarda i debiti, la Cina si è già aperta alle economie nazionali altamente sviluppate. Evidentemente Xi Jinping non ha badato troppo a spese pur di mantenere alto il morale del popolo della Repubblica cinese. Ora però si aggiunge il fatto che non riesce più a tenere il suo Paese così a tenuta stagna come vorrebbe. A metà novembre sono stati consegnati documenti confidenziali dapprima al New York Times e una settimana più tardi altri sono stati trasmessi anche al Consorzio internazionale di giornalisti investigativi – da quanto si dice da un alto membro della casta politica cinese. Questi documenti confidenziali vertevano sul trattamento degli uiguri, una minoranza etnica prevalentemente musulmana residente nella provincia dello Xinjiang, che sembra venga internata in gran numero nei campi di rieducazione. E poi c'è anche Hong Kong con i suoi studenti ribelli, che scaccia la cieca euforia cinese dal mondo e ricorda a tutti con quale Paese abbiamo veramente a che fare con la Cina.

 

La resa dei conti a Hong Kong

Da tempo ormai non sono più soltanto gli studenti a ribellarsi contro Pechino. La base è più ampia, poiché la protesta si sta scatenando anche alle urne elettorali sotto forma di destituzione di quasi tutti i consigli distrettuali fedeli a Pechino – tranne un'unica eccezione. Nel frattempo le rivendicazioni vertono su molto di più della prevista legge di estradizione, a cui si attacca saldamente Carrie Lam, la leader della Regione amministrativa speciale di Hong Kong, e che nello specifico infiamma le proteste di massa. La testardaggine della Lam potrebbe essere dettata dalla Cina continentale piuttosto che dalle sue convinzioni personali, ma ciò non riduce affatto il clima esplosivo di questo conflitto. Poiché, sensibilizzata dalle indiscrezioni di un esponente politico nel caso dell'etnia uigura, la comunità internazionale ha di nuovo messo la Cina sotto osservazione a causa delle questioni dei diritti umani, e Hong Kong è nel bel mezzo del mirino. Ciò che farà Xi Jinping nelle prossime settimane con e a Hong Kong sarà determinante per il rapporto della Cina con il resto del mondo. Ed è proprio qui che sussiste il dilemma: troppa autorità lo danneggerebbe sul piano internazionale, mentre troppo poca su quello nazionale. E anche non fare niente non è un'opzione praticabile. Domenica ha avuto luogo un'ennesima massiccia dimostrazione. I media locali hanno parlato di ben 800'000 dimostranti, mentre la polizia ha stimato il numero di partecipanti a meno di 200'000. In via preliminare vi erano state anche razzie da parte dei sostenitori del movimento democratico di Hong Kong, grande vincitore delle citate elezioni comunali. L'euforia cinese si è concentrata solo su sé stessa per decenni. Di fronte alle grandi sviolinate su quanto la Cina sia superlativa e del suo potenziale economico è caduta completamente nel dimenticatoio la questione dei diritti umani. Ma adesso è ora di finirla – come già detto – quantomeno per Hong Kong.

 

Uno Stato totalitario

Nel marzo 2017 sono – per così dire – incappato in una notizia un po' curiosa. Dato che nel tempio celeste di Pechino veniva rubata la carta igienica dalle toilette pubbliche, il governo vi ha installato degli scanner facciali. Solo chi si posiziona per alcuni secondi davanti a una telecamera ad alta definizione riceve quasi un metro – a seconda delle fonti da 60 a 70 cm – di carta igienica da un distributore automatico. Tra un utente e l'altro devono passare almeno nove minuti, altrimenti il distributore non fornisce più alcuna carta. Questo sistema ha messo fine ai furti di carta igienica, ma è però soltanto una lotta ai sintomi e non alle cause. Il metodo di soluzione adottato ha rafforzato il sistema all'insegna del «big brother is watching you». I furti venivano effettuati presumibilmente da cittadini anziani e di sicuro non benestanti. Sebbene dal 1998 al 2018 il reddito pro capite a parità di potere d'acquisto della Cina sia aumentato pressoché di otto volte, la povertà è ancora onnipresente. In Cina vi sono quasi 300 milioni di lavoratori migranti, ossia oltre un terzo della popolazione che esercita un'attività lucrativa, che il governo desidera sfollare dalle città e che in parte allontana anche realmente senza troppi scrupoli. Nemmeno un quinto dei lavoratori migranti ha un'assicurazione malattia e una quota ancora inferiore può rivendicare un qualsivoglia diritto a una rendita pensionistica. Sono cittadini di seconda categoria, o forse neanche. E questo grazie alla sorveglianza di Stato che li controlla e li elimina dalla scena, proprio come con gli uiguri. La Cina è una dittatura, uno Stato totalitario, che estende i suoi tentacoli in tutto il mondo. In Africa, lungo la Via della seta e nelle aree più remote della Terra. Siamo rimasti paralizzati troppo a lungo dalla paura per la grandezza e la dinamica della Cina ed eravamo entusiasti della modernità orientale del Paese. Ancora oggi numerosi miei colleghi parlano con fervore della Cina. Per loro questo Paese è tuttora uno «strong buy» su cui puntare, in considerazione degli utili superiori alla media che si possono conseguire. Vedremo fino a quando, però. La risposta può darcela soltanto Xi, e per l'appunto a Hong Kong. Almeno per una volta il mondo non si ferma alle prime apparenze e va a fondo della questione. I mercati finanziari però non lo fanno.