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Edizione 30.11.2020 – Il parere dell'economista capo di Raiffeisen

Martin Neff – Economista capo di Raiffeisen
Martin Neff – Economista capo di Raiffeisen

No. Il titolo delle mie riflessioni odierne non è la tassonomia di una specie di pappagallo, né il nome abbreviato di una casa editrice di libri tascabili, bensì uno di quei acronimi impronunciabili di cui sono pieni zeppi i mercati finanziari. RoRo indica infatti il concetto di «Risk-on Risk-off» ed è una specie di termometro del rischio delle borse. Nella modalità «risk-on», gli investitori giudicano positivamente il contesto per gli investimenti e la fame di rendimento vince ogni altra preoccupazione.

Questo accade quando i rischi specifici del contesto congiunturale, monetario o geopolitico appaiono gestibili e sotto controllo, oppure quando vengono dissipati. Nella modalità «risk-off», invece, gli investitori cercano riparo in porti sicuri in quanto potrebbero verificarsi o si sono verificati episodi imprevisti che hanno depresso o deprimono il sentiment di mercato. In casi del genere, tutto quello che gli investitori vogliono è la sicurezza, e nessuno è praticamente più disposto ad assumere rischi. 

Nel corso del 2020 siamo passati ben due volte nell'arco di pochissimo tempo dalla modalità «on» a quella «off» e viceversa «grazie» al Covid-19 e un po' anche a Donald Trump. Quando a marzo è apparso evidente che il coronavirus non sarebbe stato una nuvola passeggera, la propensione al rischio si è vaporizzata e le borse hanno accusato un crollo verticale. Gli interventi e le dichiarazioni sul fronte della politica fiscale e monetaria hanno tuttavia arrestato questa caduta libera, tanto che i mercati sono addirittura passati a un clima di euforia proprio quando l'economia reale iniziava a soffrire pesantemente. E anche in autunno le cose sono andate su questa falsariga. Improvvisamente gli operatori di borsa hanno riacquisito consapevolezza dei rischi (elezioni statunitensi, seconda ondata di Covid) da cui in precedenza avevano distolto lo sguardo. La conseguenza: di nuovo un crollo delle borse, soltanto di breve durata ma molto intenso. E solo poco tempo dopo, tre settimane fa, è arrivata la grande ancora di salvezza sotto forma di un vaccino contro il coronavirus, con conseguente rally delle quotazioni di borsa. Un vero e proprio carosello di colpi di scena! 

 

I rischi non fanno (più) parte della vita?

Secondo il World Economic Forum (WEF), a inizio 2020 giudicavamo la situazione dei rischi come segue: fattori quali condizioni meteorologiche estreme, inefficacia nella lotta contro il cambiamento climatico, catastrofi naturali, perdita della biodiversità e catastrofi ambientali causate dall'uomo si collocavano ai vertici della scala dei rischi, seguiti da frodi informatiche e furto di dati, cyber attacchi, crisi idriche, fallimento della governance globale e bolle speculative in una grande economia mondiale. Le suddette problematiche non sono certo irrilevanti, ma diciamocela tutta: rispetto al «povero uomo dell'età della pietra», che all'alba strisciava guardingo fuori dalla sua caverna e non sapeva se ad attenderlo c'era una tigre dai denti a sciabola, la nostra vita è una passeggiata di salute. Il coronavirus ha forse instillato una nuova consapevolezza dei rischi nella nostra società fondata su certezze all'apparenza incrollabili. Ma la cosa non sembra destinata a durare. La fiducia riposta nella tecnologia e nella medicina è più forte dei contraccolpi prodotti da questa temporanea battuta di arresto. Inoltre, in realtà assumiamo rischi praticamente ogni giorno: quando ci sposiamo, facciamo figli, traslochiamo, cambiamo lavoro, ci mettiamo al volante o prendiamo il bus, a casa o in viaggio verso qualsivoglia destinazione – ma li ignoriamo perché siamo abituati a conviverci. Il rischio è connaturato alla natura umana. Alcune persone tra di noi assumono consapevolmente più rischi delle altre, ma su basi empiriche è difficile stabilire chi alla fine sia più felice. Oggi esporsi ai rischi è meno importante che in passato, quando la quotidianità era punteggiata da guerre o rivoluzioni. Nella nostra società, ormai pianificabile fino nel minimo dettaglio, ci vengono tolte praticamente tutte le castagne dal fuoco. Possiamo addirittura scegliere quale sarà il sesso dei nostri figli e avere la certezza pressoché assoluta che nascano sani. Tutto questo si traduce anche in un certo lassismo delle masse, che si crogiolano sempre più spesso nel pensiero rassicurante che non possa accadere niente di grave e che tutto sia destinato a proseguire nel migliore dei modi. Attualmente queste masse sono tuttavia indignate per cose del tutto diverse: anche dopo che il coronavirus sarà un ricordo sbiadito, i loro risparmi accumulati con il sudore della fronte non produrranno interessi.

 

I rischi fanno parte della vita

Chi oggi desidera far crescere i propri risparmi – anche solo un pochino – non può più riposare sugli allori e attendere che il patrimonio si moltiplichi grazie al lavoro incessante degli interessi semplici e di quelli composti. Oggi gli interessi sono un ricordo del passato e lo stato esige addirittura dei soldi da chi sceglie di prestargli del denaro. Poiché per il momento appare improbabile che la politica monetaria sia destinata a mutare, a tempo indefinito in cambio di rischio zero si otterranno anche interessi zero. Chi quindi vuole guadagnare qualcosa con il proprio denaro dovrà senz'altro guardarsi intorno, e la risposta verrà necessariamente dai mercati azionari. Il Dow Jones, il principale indice azionario del mondo, ha appena aggiornato nuovi livelli record, tagliando per la prima volta la soglia dei 30 000 punti. Il suo valore è quindi sestuplicato nell'arco di trent'anni. In questi sei lustri ci sono stati senz'altro momenti bui per gli operatori, con pesanti crolli delle quotazioni a causa dello scoppio della bolla dotcom o della crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti, ma alla fine il vecchio adagio di borsa ha trovato conferma: nel lungo termine, nessun investitore può fare a meno delle azioni. A fronte di un ampio orizzonte temporale d'investimento, il momento d'ingresso è in ultima analisi irrilevante. Nonostante la performance convincente delle azioni e lo scenario dei tassi immutato sia oggi che in una prospettiva temporale prevedibile, gli svizzeri detengono ancora molti più contanti o depositi che investimenti in azioni – concretamente, oltre due volte e mezzo di più. Denaro che giace «inerte» per pura paura dei rischi. In realtà, ormai da tempo sono altri a farsi carico dei rischi, ovvero le banche centrali e gli stati. Dunque: se una piccola economia domestica si chiede perché non vede nemmeno l'ombra di tutto il denaro che viene iniettato di continuo nel sistema, significa che non detiene investimenti in azioni. Se lo avesse fatto, adesso anche questi piccoli risparmiatori avrebbero la loro parte.